Da
“Il capitale finanziario oltre il capitalismo”
Ed.
Punto Rosso – Febbraio 2221
Di
Sandro Valentini
Il
capitale finanziario
Nell’ analisi strutturale di Marx la distinzione tra capitale produttivo e capitale finanziario, sia pur nella loro sostanziale unitarietà, è precisa. Il capitale finanziario è cosa ovviamente ben diversa dal capitale commerciale e di credito che aveva avuto una parte rilevante nelle società mercantilistiche precapitalistiche. Sorge e si sviluppa con il formarsi delle società per azioni. Questa distinzione permette a Marx di stabilire il modo proprio del capitale finanziario di regolamentare totalmente la società, in qualche misura autonomamente dallo stesso capitale produttivo. Egli infatti vede nel capitale finanziario, tramite appunto le società per azioni e il credito, non solo il semplice processo di produzione e di scambio, ma ne individua anche un livello più alto che determina il suo ruolo preminente sull’intera società. Il capitale finanziario dunque come intelligenza reificata del processo sociale. La forma di una società a capitalismo maturo è quella in cui la funzione sociale del capitale è resa dominante dal momento finanziario.
Questa analisi di Marx è stata ripresa da Engels nelle note e nelle aggiunte al III Libro de “Il Capitale”. Marx adombra efficacemente come il transito dalla società industriale a quella finanziaria si caratterizzi anche come un passaggio dalla ricchezza produttiva e imprenditoriale a quella parassitaria e di rapina propria del capitale finanziario. In questo ambito è la rendita a essere il fulcro del modo della produzione neofeudale del capitale. Marx in riferimento all’aristocrazia finanziaria afferma: «Il profitto si presenta esclusivamente sotto forma di rendita» e «il profitto totale è intascato unicamente a titolo di interesse, ossia è un semplice indennizzo della proprietà del capitale». La differenza tra il capitalismo industriale e quello finanziario è lucidamente sottolineata da Marx, il quale mostra come, tramite lo sviluppo della finanza, la classe media e il mondo imprenditoriale finiscano per essere dissolti. Se, infatti, nel capitalismo imprenditoriale il capitale è «proprietà privata dei singoli produttori», con l’avvento dell’economia finanziarizzata si produce la separazione tra proprietà e produttori: ne discende la conseguenza paradossale per cui all’interno della stessa produzione capitalistica si realizza «l’annullamento dell’industria privata capitalistica». Il produttore capitalista è sostituito dallo speculatore finanziario: se il primo rischiava in proprio e accumulava il capitale, il secondo rischia con una proprietà non sua e pretende che altri risparmino per lui. Pertanto il capitale finanziario si fonda – scrive Marx – non più sulla contrapposizione tra operaio e imprenditore, bensì su quella tra il capitale e gli «individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero». Questi ultimi vengono impiegati dall’economia finanziarizzata come suoi strumenti, come funzionari della crescita infinita del valore: si controllano reciprocamente e sottopongono a inflessibili sanzioni chiunque non eserciti nel modo migliore la propria funzione di agente della valorizzazione del valore. Il capitale divora i suoi stessi agenti.
Successivamente Hilferding e Lenin (1) hanno ripreso l’analisi sul ruolo predominante del capitale finanziario soprattutto accentuandone gli aspetti di guerra economica e l’approdo imperialistico che deriva dal suo sviluppo. Che il capitale finanziario sia l’espressione attraverso cui i capitalisti realizzano il loro predominio è un fatto assodato dal marxismo, fin dalle sue origini. Del resto, se il capitale finanziario impone un controllo sulla produzione, allora questa fase costituisce il punto più alto della lotta di classe. È pertanto erroneo presentare le teorie di Marx come il semplice fronteggiarsi tra capitalisti e operai, è una esemplificazione della lotta di classe. Vi è invece in lui una visione più complessa, cioè che tale contrapposizione è contenuta nell’ambito della preminenza del capitale finanziario.
La formazione del capitalismo monopolistico di Stato è, in sintesi, l’intreccio tra i monopoli industriali e finanziari che si saldano attraverso lo Stato. In questa saldatura lo Stato, da una parte traduce in pratica la visione complessiva del capitale finanziario, e nello stesso tempo, dall’altra parte, non lo riconosce formalmente come il depositario dell’intera ricchezza del paese. Ma non per questo il capitale finanziario rinuncia a cercare nuovi partner, a espandere ulteriormente lo sviluppo monopolistico della produzione e degli scambi, fino a trasformarsi in multinazionale. In questo quadro il modello keynesiano rappresenta il tentativo di regolamentare il capitale finanziario per mantenere alto il livello di produttività e per contenere l’accumulazione ulteriore del capitale finanziario a scopi speculativi.
È infine interessante notare che il capitale finanziario ha sempre reagito alle politiche volte a un suo contenimento, tentando di abbassare la contrapposizione tra profitto e salario. Una ideologia di dominio che cerca di far scomparire o ridurre il conflitto di classe tra salario e profitto a semplice rivendicazione sindacale. Come il capitale produttivo accumulato nasconde il plusvalore così il capitale finanziario tenta di presentarsi come regolatore imparziale del processo sociale complessivo. Infatti la finanza orienta in un periodo lungo lo sviluppo del sistema capitalistico. Determina le condizioni di finanziamento che di volta in volta comportano fasi lunghe in cui la crescita economica è incoraggiata oppure scoraggiata. Nel capitalismo non esistono linee divisorie nette tra gruppi industriali e commerciali e gruppi finanziari e più in generale tra percettori di profitti e percettori di rendite. I gruppi monopolistici più potenti operano in entrambi i campi. Sono impegnati in attività finanziarie, intervengono sui mercati dei cambi, acquistano o vendono titoli di Stato. Le grandi imprese si rivolgono sempre più direttamente ai mercati senza passare per le banche. Compiono esse stesse operazioni di prestito e reinvestono i loro utili in borsa in termini spesso sconnessi dalla logica di produzione.
Ho voluto rammentare, con brevi cenni, le riflessioni marxiane sul capitale finanziario per togliere qualsiasi equivoco sul modo in cui era inteso in passato e quale sia ora la sua natura dominante sull’intero apparato economico. La questione dunque che dobbiamo porci è: il capitale finanziario oggi si presenta dominante attraverso il capitalismo monopolistico di Stato? Io credo che per l’Occidente non sia più così. Sostengo infatti che vi sia stata una mutazione del capitale (nella unitarietà di tutte le sue componenti) in capitale finanziario. Credo che ciò abbia comportato un salto del capitale, un suo passaggio in altra forma. Poi la si chiami come si vuole questa fase: neocapitalismo, postcapitalismo (anche se a me queste definizioni non piacciono poiché potrebbero intendere una volontà di andare oltre alle categorie marxiane). Basta intenderci sulla sostanza e cioè che il capitale è mutato (2).
Questa analisi determinava anche un’altra conseguenza politica e teorica. Il riequilibrio della società, favorito dallo Stato e da politiche di programmazione, comportava il superamento della nozione di imperialismo. Tramite una economia mista, come risultato della funzione dello Stato, l’egemonia su di esso sarebbe stata esercitata dalla proprietà pubblica rispetto a quello privata, addirittura fino all’esito finale di «un capitalismo senza capitalisti, di un capitalismo senza proprietà privata e senza monopoli», come ironicamente sosteneva Bruno Trentin in “Ideologie del neo-capitalismo”.
Questo passaggio implicitamente è contenuto nel pensiero di Marx che definì la sua opera “Il Capitale” come studio del processo della sua riproduzione. La sua era una analisi strutturale. Partiva dalla considerazione che il capitale è una categoria dinamica e che le forze sociali cui esso corrisponde appaiono molti secoli prima della formazione in termini strutturali del capitalismo. Marx è attento a cogliere la diversità storica delle diverse forme del capitale e della sua mutazione, finché il capitale industriale non diviene forza predominante appunto con la struttura capitalistica. Questa dimensione storica del capitale e della produzione di merci per Marx hanno una rilevanza teorica e politica. La produzione di merci e di beni era certamente preesistente al sistema capitalistico e quindi questa forma produttiva non va confusa con i caratteri della produzione capitalistica.
Nel 1971, gli accordi stabiliti nella conferenza di Bretton Woods del 1944, (alla quale, è importante sottolinearlo, partecipò anche Keynes) furono messi in discussione da parte di Nixon per fronteggiare la guerra del Vietnam, e questo fu l’inizio del processo della mutazione della forma del capitale. L’accordo siglato a Bretton Woods prevedeva infatti un sistema monetario globale fondato sulla convertibilità del dollaro in oro. Si era costituito un sistema basato sui rapporti di scambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta poteva essere convertito in oro, in modo da rendere stabile il sistema e disincentivare gli eccessivi movimenti di capitali per fini speculativi ed evitare crisi sistemiche come quella del ’29. Con quegli accordi si istituirono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. La convertibilità del dollaro in oro impediva agli USA e a ogni altro paese di stampare moneta a proprio piacimento, per farlo dovevano possedere oro in proporzione alla moneta emessa.
Il superamento di quegli accordi ha portato ad una politica che permette di stampare moneta senza nessun vincolo e così il sistema valutario ha iniziato a trasformarsi in un sistema di fluttuazione dei cambi senza nessuna certezza, con un dollaro sempre più volatile. Le crisi finanziarie dei nostri tempi vengono da quella decisione. Le libere fluttuazioni valutarie hanno determinato un mercato finanziario senza limiti, senza regole e vincoli. Un mercato dove l’unica legge è quella di realizzare il massimo profitto che si genera soprattutto acquistando e vendendo valuta. La moneta è divenuta da strumento dello scambio commerciale o capitale di credito per il capitale produttivo, a essere essa stessa merce. Questo non è un passaggio di poco conto. Si è costituita una bolla finanziaria con una enorme massa di denaro che si sposta rapidamente, in tempo reale attraverso Internet. Siamo oramai alle cripto-valute, cioè a monete non emesse da uno Stato, ai crediti default o swap o spread, ecc. ecc.
Si è passati così a un sistema in cui una moneta altamente volatile, controllata dall’ente emittente secondo regole proprie a cui le oligarchie finanziarie accettano di aderire, si scambia con un’altra moneta ugualmente volatile, il cui valore è determinato dalla domanda e dall’offerta. La crisi valutaria del 1992 è stata la prima crisi sorta dalle contraddizioni del capitale finanziario. Mentre la crisi petrolifera del 1973, scoppiata in seguito al conflitto arabo-israeliano, detto “guerra del Ramadan” o “guerra del Kippur”, segna la data dell’inizio del declino imperialistico degli USA. Infatti il forte rincaro del petrolio, reso possibile dalle aumentate importazioni petrolifere negli Stati Uniti, ebbe l’effetto di indebolire gravemente la posizione finanziaria di tutto l’Occidente. L’aumento del prezzo del petrolio e la messa in discussione degli accordi di Bretton Woods, con la conseguente svalutazione del dollaro, determinarono il superamento dell’ordine economico costruito nel 1944. Da questa crisi nascerà una lunga stagione di inflazione per tutto l’Occidente. Il recupero dei profitti si realizzerà sia attraverso l’inflazione, sfruttando i margini sempre più ampi di libertà legati alla variabilità del cambio estero, sia con l’emergere di consistenti e permanenti disavanzi di bilancio, sia evitando una riduzione troppo marcata della domanda.
Con la separazione delle banche nazionali dai governi (dal Ministero del Tesoro e con la completa privatizzazione dei sistemi bancari), come è avvenuto in Italia, e poi nel 1995 con la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio il cerchio si è chiuso: la globalizzazione contiene un fattore finanziario nuovo e più potente rispetto al passato. Il capitale così come era stato descritto da Marx opera ancora attivamente, ma il segno complessivo della globalizzazione (in Occidente) lo dà il capitale finanziario con le sue attività speculative. Anche la nozione di imperialismo permane. Intanto perché la forma capitalistica è operante e continua a svolgere la sua azione predatoria come espressione della volontà degli Stati forti, ma soprattutto perché il capitale finanziario ha trasformato le politiche imperialistiche in sofisticate e più complesse attività di condizionamento e di sfruttamento dei paesi più deboli. Così come non è vero che i tre poli fondamentali dell’imperialismo, statunitense, europeo (in particolare l’asse franco-tedesco) e giapponese siano superati da enti sovranazionali che svolgono una politica imperiale per conto del capitale finanziario, come il Fme, la Banca mondiale, il Wto o le Agenzie di rating legate alle multinazionali.
Questi enti sovranazionali sono controllati dai principali poli imperialistici che in quelle sedi si misurano tra loro e competono; e il capitale finanziario ha bisogno contemporaneamente di questi enti sovranazionali, ma anche della statualità di nazioni imperialistiche per la sua ulteriore espansione. I mercati di esportazione infatti sono a oggi ancora determinati dalla vicinanza geografica. Secondo una stima di Riccardo Belfiore i due terzi delle vendite e delle attività delle multinazionali si hanno nella regione di origine. Inoltre negli anni ‘80 si avvia nei paesi capitalistici avanzati, una nuova fase dell’economia. Con la delocalizzazione delle industrie nelle periferie del mondo, mantenendo al centro solo il ciclo di valorizzazione e di commercializzazione delle merci o dei prodotti ad alta tecnologia, si è andato delineando un sistema di produzione postfordista, con scenari tecnologici sempre più articolati e complessi. E proprio in quegli anni una serie di paesi europei raggiungono livelli di innovazione industriale e di tecnologie paragonabili agli USA.
Tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 dunque i grandi gruppi industriali si segnalano per una crescente attività consistente in una accentuazione dei tratti finanziari, cioè uno spostamento di interesse dalla produzione alla finanza. All’inizio molti economisti consideravano questa una novità legata allo sviluppo del capitalismo in quanto l’autonomia del settore finanziario da quello produttivo restava pur sempre relativa. Ma la tendenza del capitale diventa sempre più evidente, non è più orientato verso l’accumulazione per la riproduzione del sistema capitalistico. In altre parole attraverso incessanti cicli di espansione e di crisi piega ai suoi fini segmenti nuovi della produzione. Per comprendere le trasformazioni della realtà contemporanea deve essere esaminato il modello di produzione, introducendo al fianco dei fattori di continuità anche altri di forte discontinuità. A questa impostazione i marxisti ortodossi obiettano che è difficile conciliare un ulteriore aumento del tasso di plusvalore con una drastica riduzione della produzione. Insomma una massa crescente di plusvalore come viene realizzata? Questa obiezione si ostina a considerare la tesi del valore di Marx solo legata al momento della produzione. Non vede i processi in atto dalla seconda metà del Novecento di finanziarizzazione e di terziarizzazione dell’economia e con la delocalizzazione dell’industria la creazione di due cicli, quello povero, industriale, nelle periferie, quello ricco, di valorizzazione e commercializzazione dei beni, materiali e immateriali (ma anche di produzione di nuove tecnologie), al centro, nei luoghi di comando del capitale. La creazione di plusvalore avviene quindi oggi sia nel momento della produzione e sia in quello della valorizzazione e commercializzazione del prodotto. Questo tra l’altro è uno dei terreni più fertili su cui si è sviluppato il capitale finanziario fino a rendersi autonomo e dominante anche sul capitale industriale, legato alla tradizionale produzione, in particolare alla fase del capitalismo monopolistico di Stato. I marxisti ortodossi sostengono che il plusvalore non può essere prodotto nella sfera finanziaria poiché senza il processo materiale di produzione le operazioni finanziarie non sarebbero che castelli costruiti sulla sabbia destinati nel breve periodo a crollare rovinosamente. Questa obiezione, del tutto ideologica, tenta di difendere la tesi del valore enunciata da Marx (tema che affronto nei capitoli successivi), senza rivisitarla e aggiornarla. Non vedono la realtà, i processi di mutazione del capitale.
Va ricordato e ribadito che il capitale finanziario condiziona pesantemente il mondo reale. Pesa poiché si insinua nell’economia reale fino a controllarla. Le imprese monopolistiche o le multinazionali, direttamente controllate dal capitale finanziario, legano a sé le piccole e le medie imprese che si trovano a dipendere dai gruppi monopolistici per le forniture, per gli appalti e subappalti, per i regolamenti, per i prestiti, per le tecnologie, per le tariffe dell’energia, per i trasporti, per la commercializzazione e la valorizzazione dei prodotti (anche attraverso la pubblicità), per la legislazione del lavoro e per i contratti. E ancora più grande è il peso del capitale finanziario sulla finanza dei paesi maggiormente indebitati. Se il rendimento dei titoli di Stato sale troppo, per i governi diventa difficile o impossibile rifinanziare il proprio debito. Al contrario, se i governi non riescono a collocare titoli di Stato, vanno in default poiché non sono in grado di rimborsare i debiti in scadenza. E il condizionamento influisce anche sull’andamento delle borse. Se i titoli precipitano il problema diviene serio e preoccupante per le imprese quotate e di conseguenza il paese in cui queste sono collocate perde ricchezza e dunque i consumi calano, le imprese producono e fatturano di meno e la disoccupazione aumenta.
La globalizzazione contiene tre fattori fondamentali: il rapido spostamento di ingenti capitali in tempo reale da un punto all’altro del pianeta tramite Internet; l’internazionalizzazione del commercio, dove sempre più strategico è il settore delle nuove tecnologie; la massiccia mobilità della manodopera, anche di quella qualificata, da un paese all’altro, addirittura da un continente all’altro. Affronto il tema della globalizzazione in un altro capitolo, qui mi preme evidenziare solo il fattore della globalizzazione finanziaria per una doverosa precisazione. Tutti i paesi, dagli USA alla Cina, spostano rapidamente immensi capitali. La questione è quanti di questi capitali sono la componente finanziaria del capitale, pur nella sua unitarietà precisata da Marx, e quante sono esclusivamente operazioni speculative (o destinate tutt’al più alla sola valorizzazione e distribuzione dei prodotti), insomma che prescindono dalla produzione e dall’economia materiale. Sono operazioni esclusivamente concepite per realizzare immensi profitti che quasi sempre si trasformano in rendite finanziarie.
Non è un problema da niente. Il numero delle operazioni di credito, a sostegno di attività economiche (compresa quella della finanziarizzazione del terziario avanzato) è elevato, ma notevolmente al di sotto delle operazioni finanziarie puramente speculative. Ed è nella natura del moderno imperialismo l’inclinazione alla commercializzazione della valuta come merce per il fatto che si possano realizzare così facili ma grandi profitti, mentre i paesi a orientamento socialista come la Cina, o quelli in cui vige una forma di capitalismo monopolistico di Stato come la Russia, o quelli di nuova industrializzazione o esportatori di materie prime considerano ancora il capitale finanziario una delle due componenti del capitale, anche se lo stesso Marx riconosce al primo un ruolo predominante. Non è una distinzione secondaria ma fondamentale per comprendere, anche dal punto di vista geopolitico, lo schieramento delle forze in campo in un mondo multipolare. Per questa ragione oggettiva (strutturale) paesi con sistemi sociali spesso molto diversi si trovano su una linea di convergenza rispetto al nuovo imperialismo espresso dal capitale finanziario, un imperialismo tra l’altro non compatto, che vive delle profonde contraddizioni (interimperialistiche) dovute alla competizione tra i suoi tre principali poli.
I diversi aspetti s’intrecciano e spesso la distinzione teorica è più difficile individuarla nella pratica. Ma la tendenza di fondo è quella sopra indicata. Faccio un solo esempio per meglio spiegarmi. La Fca, come si sa, ha chiesto un corposo prestito di 6,3 miliardi di euro al governo italiano per affrontare l’emergenza economica determinatasi con il coronavirus e sostenere la produzione delle aziende italiane del gruppo, indotto compreso. Non entro nel merito della operazione, non è questa la sede. Mi interessa solo evidenziare che la Fca chiede un prestito ingente allo Stato ma non rinuncia ai suoi dividendi di oltre cinque miliardi di euro. La domanda un po’ pleonastica è: dove vanno a finire i soldi di questi dividendi? Ad ingrossare le rendite o per attività speculative sui mercati finanziari. Ecco un esempio “di scuola” che spiega l’intreccio tra vecchie forme economiche capitalistiche e il ruolo oggi predominante di un capitale finanziario che non si preoccupa minimamente di sostenere e di finanziare le attività produttive. A queste ci deve pensare lo Stato, intanto il capitale finanziario si organizza per altre operazioni speculative rinnovando e sviluppando la sua presenza sui mercati. Ma non è finita. Ottenuto il finanziamento dopo un mese la Fca comunica ai suoi fornitori italiani di non aver più bisogno delle loro forniture e che quindi queste sono sospese. Saranno le aziende estere a produrre d’ora in avanti sospensioni, impianti di scarico, architetture elettroniche, ecc. ecc. forniture che venivano prodotte da aziende italiane. E questo è oggi il suo ruolo, speculativo e parassitario, in questo consiste la mutazione del capitale in capitale finanziario, per cui il capitale industriale analizzato da Marx è relegato a una funzione di minore peso, non più predominante.
Pure per quanto riguarda il commercio si possono fare delle considerazioni interessanti. Quando Trump vara misure per condurre la sua guerra doganale contro la Cina, Pechino non risponde facendo leva sulla finanza per determinare instabilità sui mercati, anche se detiene una quota assai corposa del debito pubblico statunitense, ma utilizza soprattutto misure mirate a colpire quei settori dell’economia americana che sono orientati elettoralmente a sostegno di Trump. Quindi la Cina difende l’internazionalizzazione del commercio e degli scambi evitando il più possibile di usare l’arma della globalizzazione finanziaria che è una caratteristica dell’imperialismo. Ciò avviene anche quando la Cina investe in grandi opere infrastrutturali in paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. È evidente che tali opere per essere realizzate hanno bisogno di ingenti risorse, di investimenti di capitale, come componente finanziaria che orienta il capitale produttivo, ma l’operazione non ha intenti speculativi, è volta piuttosto al sostegno della produzione e dello sviluppo di quei paesi. I fondi finanziari cinesi hanno principalmente lo scopo di accumulazione di capitali per investimenti.
Pertanto con tale politica si determina, come detto, una accumulazione di capitale anche in Cina da parte di grandi imprese, ma per evitare che l’accumulazione si trasformi in sviluppo autonomo del capitale finanziario e dunque di conseguenza in condizionamento politico, il governo cinese dirotta tali accumulazioni anche in investimenti ingenti a sostegno di attività sportive, culturali e ludiche. Le spese spesso folli del calcio cinese, che solo apparentemente rassomigliano a quelle pazzesche sostenute in Occidente per questo sport, sono autorizzate per ridurre notevolmente l’influenza sulla società cinese del capitale finanziario, ma nello stesso tempo per poter competere anche nello sport con l’Occidente. All’accumulazione di capitale sono consentiti solo questi sbocchi, ovviamente oltre quelli ben più importanti di finanziare attività produttive o di fare investimenti su opere infrastrutturali o per la ricerca tecnologica e scientifica. In questo modo la struttura a orientamento socialista della società cinese impedisce al capitale finanziario di divenire predominante.
La globalizzazione non è univoca. Presenta aspetti sia positivi che negativi. Le oligarchie finanziarie, le multinazionali, i principali poli imperialistici, sempre più optano per la globalizzazione finanziaria, nell’ambito della gigantesca e inquietante bolla di valuta volatile che condiziona l’economia. Tutti gli altri paesi, quando hanno la forza politica ed economica per poterlo fare, come la Cina, valorizzano altri aspetti della globalizzazione. Quelle che potrebbero apparire, da un esame superficiale, delle contraddizioni della globalizzazione sono in realtà due modi diversi, opposti, di intenderla e realizzarla.
Vengo infine alla nota dolente che riguarda la posizione della sinistra italiana e di quella europea rispetto a questi temi dirimenti. In primo luogo riconosco che c’è anche una sinistra di orientamento marxista, attenzione però, questa ha sostituito il materialismo di Marx con una logica idealistica astratta. Non individua i movimenti della struttura sociale essenziali per dare concretezza all’iniziativa politica. Gettando in mare i fondamenti strutturali si giunge a un esito ideologizzante del marxismo mettendo in risalto in termini estremistici il rapporto capitale-lavoro e quindi in definitiva si giunge a concepire la rivoluzione come una lotta salariale portata ai limiti di sopportabilità che il capitale ovviamente non può accettare. Si teorizza, la rottura rivoluzionaria esemplificandola. Ma la rivoluzione non passa per questa strada. La lezione di Lenin è di conformare l’azione politica alla necessità di spostare i rapporti di forza. «Analisi concreta di una situazione concreta». Restare invece nel riverbero ideologico è proprio nella prassi del riformismo della II Internazionale. L’ortodossia, proprio perché non ha uno sbocco rivoluzionario, conduce alla socialdemocrazia o a essere buoni a una sinistra minoritaria, tipo il marxismo-leninismo, o a forme di antagonismo sociale rumorose ma inconcludenti. Si determina un effetto paradossale: nel contrapporsi con lucida disperazione al revisionismo si nega l’analisi strutturale. Risultato: si è impotenti a dare impulso al soggetto rivoluzionario, alla trasformazione.
Molto spesso poi si resta intrappolati nella rete dell’immagine ideologica che il capitale tende a dare di se stesso. In nome della superiorità della democrazia si finisce per percorrere la via che porta al pensiero liberale, diventando parte integrante di tale pensiero. È avvenuto che anche quelli muniti di tanta buona volontà e sensibilità verso il tema della giustizia sociale, come Sweezy o la scuola di Francoforte, si siano impegnati e concentrati sul falso bersaglio rappresentato dalla proposta di un mero modello distributivo. Questi avevano almeno l’attenuante di aver svolto le loro analisi quando le politiche riformiste avevano, nell’ambito del sistema del capitalismo monopolistico di Stato, un margine di manovra di una certa importanza. Ma oggi c’è la cocciuta posizione di economisti, come ad esempio Piketty e Stiglitz, o di esponenti della sinistra keynesiana italiana, che va tanto di moda, tra tutti Marianna Mazzucato, che faticano a cogliere il mutamento del capitale. Ragionano come se fossimo ancora nel 1944 a Bretton Woods!
L’attuale crisi del capitale finanziario, accelerata dal Covid-19, dimostra il fallimento della forma di dominio sociale in cui essa si innerva, la governance neoliberista. Si prendono misure schizofreniche da parte dei governi, caos e confusione, visioni appunto neomalthusiane di popolazioni sacrificabili in nome del profitto, e queste misure si mescolano con le posizioni neokeynesiane che invocano aumenti di liquidità a sostegno dell’economia pubblica e privata. Dimenticano l’ossatura di classe dell’attuale dominio del capitale finanziario e delle mutate condizioni storiche rispetto al Keynes della grande crisi del ’29. Questo postkeynesismo si configura come un keynesismo rovesciato, non è a sostegno del reddito per incrementare la domanda di beni e di servizi, ma funzionale ad aumentare la domanda e offerta di denaro alle banche e istituti finanziari privati. Misure che riproducono il meccanismo perverso del debito, quello stesso che si trascina dalla crisi del 2008, che soffoca e distrugge Stati e popolazioni, le loro condizioni di vita. Non occorre essere esperti di economia per comprendere che le ricette prodotte per uscire da questa crisi sono le stesse che ne stanno all’origine. Inoltre, spesso, si confonde questo postkeynesismo con politiche di riproposizione e di ripresa del welfare. Le misure sociali, sussidi, bonus e quant’altre politiche assistenziali, per attenuare la povertà crescente, sono, a guardare bene, funzionali al capitale finanziario. Sono un anestetico per non alzare la tensione sociale senza dover operare delle vere riforme per tutelare e qualificare il lavoro. E in tempi di pandemia sono dalla stessa finanza sostenute.
E tutti abboccano all’esca, ma restano intrappolati con l’amo nella bocca e ancora un minuto prima di essere cucinati nella padella rimangono convinti che vi sia stata una “rottura”, pur parziale, con le politiche neoliberiste. Se non si è sostenitori del disegno strategico del capitale finanziario, si è dei politici, degli economisti, dei tecnici, dei commentatori, degli intellettuali novelli alchimisti, che credono di poter creare l’oro dal nulla, il benessere da operazioni meramente finanziaria e speculative. Così viene rimosso, se non addirittura nascosto, il dato fondamentale: l’intera ricchezza ha come fonte principale il “lavoro vivo”, la produzione, la cooperazione sociale, non il gioco della domanda e dell’offerta di denaro.
Queste tendenze si manifestano soprattutto nella sinistra europea, con poche eccezioni. Mancano totalmente di un pensiero lungo e di una visione del mondo. È una sinistra totalmente schiacciata sulla tattica politica che degenera nel tatticismo, nell’elettoralismo (senza per altro ottenere risultati significativi) e nel politicismo, che agisce prescindendo dall’analisi delle strutture economiche. La crisi della sinistra, sia di quella socialdemocratica e sia di quella alla sinistra del Pse, risiede in questa drammatica subalternità al pensiero liberale, caratterizzato oggi da dottrine neoliberiste espressione politica del dominio del capitale finanziario. Una sinistra che in molti casi, come in Italia, non è più il punto di riferimento di grandi masse popolari, le quali votano a destra, per i nuovi sovranismi o quando va bene per il Movimento Cinque Stelle. Ma soprattutto è una sinistra che ha scavato un solco profondo, non smetterò mai di ripeterlo, con la sinistra del resto del mondo, che è parte decisiva nello schieramento di paesi e di forze politiche e sociali nella lotta agli imperialismi. Non si tratta di esercitare solo con atti politici la solidarietà internazionalista, ma di condurre, dall’angolo europeo, la lotta per il socialismo. Di sapere, insomma, in quale campo si sta, in quanto il primo compito della sinistra, in questa fase storica, è quello di dare battaglia al capitale finanziario per schiudere un processo di transizione per l’intera umanità.
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1)
Nel corso dei suoi studi sull’imperialismo Lenin considerò molto
“Il capitale finanziario”, l’opera che Rudolf Hilferding aveva
pubblicato nel 1910. «I settori del capitale industriale – scrive
- un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta
finanza, nella quale i signori delle industrie e delle banche sono
uniti da intimi legami personali. Questa stessa unificazione ha come
base il superamento della libera concorrenza dei singoli capitalisti
per effetto del sorgere di grandi unioni monopolistiche; con ciò
cambia anche la natura del rapporto della classe dei capitalisti con
il potere statale». Questo sviluppo conduce, osserva Hilferding, al
«capitale unificato».
2)
Con neocapitalismo si fa soprattutto riferimento alla funzione attiva
dello Stato nella direzione dell’economia. In questo ambito assume
particolare importanza la cosiddetta programmazione economica il cui
scopo sarebbe di coordinare l’insieme dei piani definiti dalle
singole imprese, stabilendo a quali dare la priorità. Il
neocapitalismo porterebbe così a una nuova fase storica in cui il
capitale, costretto dallo Stato a razionalizzare la produzione,
diventerebbe più equo. Non mi pare che le cose siano andate in
questa direzione, tutt’altro! La definizione postcapitalismo mi
pare migliore anche se ambigua. Non spiega infatti, pur indicando una
processualità, se si tratta di una società che abbia superato il
capitalismo o il ruolo del capitale. Due concetti tra loro molto
diversi. Per questo preferisco la definizione di mutazione del
capitale in capitale finanziario. Mi sembra più corretta e
rispondente alle categorie marxiane. Comunque, secondo gli ideologici
del neocapitalismo, la nuova fase sarebbe caratterizzata dalla
cosiddetta rivoluzione dei “tecnici” e dalla cosiddetta
rivoluzione del reddito, per cui si superava il contrasto
fondamentale tra capitale e lavoro. Insomma una società
caratterizzata non più dall’esistenza di classi antagoniste (da
qui la valutazione dell’integrazione della classe operaia),
capitalisti da una parte, proletari dall’altra, ma era segnata da
una “classe media”, sempre più in crescita ed estesa. Pertanto
la produzione si sarebbe svincolata dalla proprietà, per cui la
ripartizione del prodotto sociale sarebbe stato non più su basi di
classe, ma su basi nuove e più eque. Era una visione della realtà
che non prendeva minimamente in considerazione quello che è alla
base dello sviluppo del processo produttivo, cioè l’accentuato
processo di socializzazione della produzione e la persistente
appropriazione privata dei frutti della produzione stessa. Lo
sviluppo produttivo e sociale non era più valutato come conflitto di
classi contrapposte, ma visto nell’ambito di una politica di
programmazione economica e in funzione dello Stato. Era una
concezione che prescindeva dalle forze reali in campo che tra loro si
contrastano.
Appendice a “Il capitale finanziario” - Covid-19: brevi considerazioni
sulle borse e sulle banche di investimento
Chissà perché tutti si affrettano a dire che la speculazione finanziaria deve essere limitata quantitativamente e che sia qualitativamente marginale, poi in pratica non è così, i fatti ci presentano una realtà opposta. L’attività finanziaria ordinaria deve sostenere l’economia reale, sollecitarne il suo sviluppo e non trasformarsi in una finanza parassitaria che abusa in operazioni speculative. Assistiamo invece a un sempre maggiore indebolimento e a una restrizione dell’attività finanziaria ordinaria che si occupa di investimenti da indirizzare in modo economicamente ottimale per lo sviluppo, e al contrario si assiste al rafforzamento, oltre ogni limite, del capitale finanziario. Questo è il primo e più importante effetto del Covid-19 nella sfera della finanza e dell’economia.
Il mondo sta attraversando la crisi peggiore dal ’29. Per il 2020 il Fondo monetario internazionale ha disegnato un quadro che dire che sia drammatico è un eufemismo. Il Fmi prevede un calo del Pil a livello mondiale del - 4,9%, negli USA del -8% e nell’area euro del -10%, con un tetto in Francia, Italia e Spagna di oltre il -12% (sono dati provvisori). Ma l’aspetto curioso, a una lettura superficiale della situazione, è che le Borse, dopo aver toccato a marzo i livelli minimi, con il coronavirus che faceva capolino in Europa e negli USA, hanno subito dopo registrato, nell’ultimo trimestre, rialzi record. Come è stato possibile? L’economia va a rotoli e le borse volano. Qual è il rapporto?
L’indice S&P 500 della borsa di Wall Street non realizzava un trimestre con un rialzo così marcato dal 1975 e il Nasdaq dal 1999 (almeno nel momento in cui scrivo) in piena euforia da new economy. Il rimbalzo dai minimi di marzo c’è stato in tutte le borse più importanti, da quella di Francoforte (+43,2%), a quella di Tokio (+36%), fino a quella di Milano (+28,4%). È lecito domandarsi quale sia la ragione di questi rialzi che nonostante l’euforia dei telegiornali sull’andamento positivo della borsa non sta a significare che l’economia vada bene e che si sia nella fase della ripresa. La ragione di questi rialzi sta nella enorme liquidità di denaro immessa dalle banche centrali nel vortice dei mercati finanziari come misure per attenuare la crisi causata dalla pandemia. Una immissione senza precedenti. In soli tre mesi le prime cinque banche centrali del mondo, la Fed (USA), la Bce, la Banca del Giappone, la Banca d’Inghilterra e la Banca del Canada, hanno introdotto nel sistema economico e finanziario l’equivalente del 10% del Pil e pare che entro il 2023 intendano stanziare quote oscillanti dal 15% al 23%.
Le banche centrali del gruppo dei dieci (G-10) hanno immesso sei trilioni di dollari dalla metà di gennaio 2020. Rispetto all’importo dei due anni di crisi finanziaria tra 2007 e 2008 sono più del doppio! Gli investitori istituzionali si sono tuffati in questa liquidità a buon mercato. Si è così scatenata una corsa all’acquisto di titoli di Stato e obbligazioni, ma soprattutto di azioni. Questi acquisti hanno fatto salire le borse. I mercati finanziari scommettono sulla ripresa dell’economia, ripresa però tutt’altro che sicura. La crisi economica infatti è più profonda di quanto previsto poco tempo fa e non è detto che si manifesti nella misura prevista. Inoltre, c’è sempre il rischio dietro all’angolo di una recrudescenza molto forte del Covid-19.
Occorre per altro dire che l’enorme immissione di liquidità e il rialzo delle Borse sta portando alla formazione di una ennesima bolla finanziaria, che potrebbe scoppiare, come è successo nel passato, con drammatici effetti se l’economia non si riprende nei tempi e ai ritmi previsti dagli investitori. Mai come questa volta nettamente si evidenzia una mancata connessione, anzi un divorzio tra l’ottimismo dei mercati finanziari e l’andamento globale dell’economia. Questa separazione tra economia e borsa è chiarissima, a esempio negli USA, dove il contrasto tra la crescita del mercato azionario e il declino dell’indice dei consumatori colpiti dalla crisi economica e della disoccupazione è palesemente evidente.
Si dovrebbe con investimenti di capitali supportare l’economia reale proprio per evitare le tante vulnerabilità degli ultimi anni, aggravate oggi dalla pandemia. Il sistema bancario dovrebbe orientare i suoi interventi soprattutto in questa direzione, ma è chiamato in termini assolutamente prioritari a salvaguardare la stabilità finanziaria e a mettere delle toppe a un modello che per continuare a funzionare si deve basare sul sostegno appunto delle banche centrali. La contraddizione non è minimamente presa in considerazione dalle oligarchie finanziarie, le quali, al contrario, sollecitano a un maggior debito pubblico, a un’accelerazione del processo di svilimento del ruolo dello Stato, a un ulteriore ridimensionamento dell’apparato produttivo. D’altronde dall’inizio della pandemia viene ripetuto il ritornello che il debito ora non è più un problema. Le maggiori banche di investimento spingono la politica all’ulteriore indebitamento. Il successore di Matthieu Pigasse, il banchiere Jean-Louis Girodolle, amministratore delegato di Lazard Frères, ci spiega che «sarebbe assurdo non indebitarsi». I grandi paesi non avranno problemi, sostiene, per finanziare il loro rilancio. È evidente che la situazione del debito globale in continua crescita e la probabile bancarotta di diversi Stati porteranno a fare parecchi affari ad alcuni potenti gruppo finanziari. I Lazard e i Rothschild, per esempio, e le più importanti banche di investimento si stanno preparando ad affrontare un notevole aumento della loro attività con politiche di ristrutturazione del debito sovrano e fusioni e acquisizioni di società in difficoltà.
Basta seguire, anche un po’ distrattamente, le loro attività. In un inserto pubblicato dal quotidiano “Les Échos”, si riassume perfettamente questo fenomeno. L’abbandono di Matthieu Pigasse non ha impedito a Lazard di avere il mandato di ristrutturazione del debito del Libano, paese sull’orlo della bancarotta. Inoltre, secondo il quotidiano libanese “L’Orient-Le Jour”, non meno di dodici organismi erano in corsa per sostenere il governo di Hassan Diab. Tra i concorrenti di Lazard c’ereano Rothschild & Co, così come il Global Sovereign Advisor (creato un anno fa da Anne-Laure Kiechel, il banchiere di Grecia), ma il banchiere francese ha beneficiato della sua presenza di lunga data in Libano e del lavoro svolto da François Kayat, che è diventato lo scorso anno copresidente della banca in Francia. Anche l’Argentina, che si avvia verso il nono default della sua storia, ha scelto la banca Lazard in quanto ha maggiore esperienza nelle operazioni di debito. Sia Buenos Aires che Beirut quindi hanno assunto come consulente legale il famoso studio americano Cleary Gottlieb, che ha aiutato quasi tutti gli Stati finanziariamente asfittici.
Il Covid-19 ha sicuramente creato un’emergenza sanitaria, ma è la crisi che ne deriverà che porterà alla morte un gran numero di piccole e medie strutture economiche in tutto l’Occidente, in particolare nell’area mediterranea, in cui il tessuto economico è molto fragile. Tuttavia, la disoccupazione non interesserà tutti i settori. Le banche d’affari infatti temono di non trovare abbastanza manodopera. La crisi così le costringe a reclutare massicciamente nuovo personale (è avvenuta la stessa cosa nel 2009). Alcuni leader europei lo sanno. Non a caso Macron ha spiegato a un giovane disoccupato che in tempi di crisi basta «attraversare la strada» per trovare un lavoro. Vi è un fondo di verità in questa affermazione, infatti se uno ha il profilo da parassita predatore, in un periodo di predazione finanziaria generalizzata, l’accesso al lavoro è sicuramente un po’ più facile.
L’ordoliberalismo, promotore del libero scambio inegualitario, ha guidato il primo assalto della finanza già dal 2008 al 2019. Non si pensi che adesso si fermerà. L’attacco sarà ancora più duro e sarà promosso da politici come Macron, ex Rothschild & Co. L’attenzione dell’opinione pubblica in questi mesi è stata deviata in Europa principalmente sull’emergenza sanitaria, sulle tensioni razziali, sul confronto in seno all’UE relativo ai provvedimenti per fronteggiare la crisi economica e sulla Bielorussia. Non si parla invece dell’attacco letale delle oligarchie finanziarie, teso a indebolire ancora di più il già inconsistente tessuto economico. Questo è ciò che sta preparando l’establishment come primo giorno dopo la pandemia.
La crisi finanziaria scoppiata nel 2007-2008 ha determinato il crollo del sistema dell’economia a credito. Oggi si continua sulla stessa strada, senza nessun ripensamento. Nulla è cambiato. Ma da allora il sistema si trascina in una fragilità crescente. I pozzi sono stati tutti avvelenati. L’economia si basa su un credito che deve essere continuamente rifinanziato, se non si vuole che il sistema entri in profonda crisi. Il coronavirus è stato solo l’innesco di una crisi preesistente, che aleggiava sull’economia da diversi anni in tutto l’Occidente. La finanziarizzazione dell’economia per estendersi ulteriormente deve conquistare nuovi spazi, nuovi mercati. Le politiche monetarie sono oramai insufficienti, possono solo spostare più avanti i problemi, le conseguenze della crisi, ma non risolverle. Da questa situazione derivano le crisi sistemiche sempre più ravvicinate del capitale finanziario. Domanda retorica: quanta della ingente valuta cartacea volatile immessa sui mercati è orientata per investimenti e quanta invece è effettivamente a sostegno della finanza in quanto tale? Ecco perché lo scontro di fondo tra i diversi imperialismi e tra questi e il campo di Stati e forze guidato dalla Cina entra oggi in una fase nuova, cruciale.
Postilla a “Il capitale finanziario” - Sui processi di trasformazione
Occorre fare alcune precisazioni suppletive sui processi di trasformazione, partendo dalla concezione materialistica della storia. Marx ed Engels hanno sostenuto che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo fosse una condizione necessaria per la successiva trasformazione da sistema democratico-borghese a una società socialista. Però la rivoluzione russa (ma anche quella cinese) hanno dimostrato che il processo democratico-borghese e quello della trasformazione in senso socialista possono essere contestuali. Ciò vale pure per il capitale finanziario. La sua potente capacità di germogliazione può determinare il passaggio da società semi-feudale a una società appunto dominata dal capitale finanziario, come è avvenuto in Arabia Saudita. Un processo per salti può realizzarsi anche nei paesi di nuova industrializzazione, che possono dar vita a forme economiche capitalistiche o a orientamento socialista. Dunque i processi di transizione possono essere di diversa natura, non sono automatici e determinati e soprattutto non seguono tutti gli stessi passaggi.
Da queste considerazioni scaturiscono alcuni interrogativi.
Primo interrogativo: la mutazione del capitale in capitale finanziario è inevitabile? La risposta è che non è detto. In Occidente la mutazione è avvenuta in quanto i processi di integrazione capitalistici erano molto avanzati, maturi.
Secondo interrogativo: è possibile tornare storicamente indietro, cioè dal dominio del capitale finanziario a forme economiche capitalistiche, come quella del capitalismo monopolistico di Stato? In questo caso la risposta è negativa in quanto, come insegna Marx, non si torna indietro nella storia, anche se alcuni aspetti possono apparentemente rammentare rapporti che si manifestavano in società precedenti, comunque sono aspetti marginali o residuali.
Terzo interrogativo: si può passare da una società a forma socialista al capitalismo monopolistico di Stato o addirittura al predominio del capitale finanziario? Se si guarda la storia la risposta in questo caso è positiva. L’Unione Sovietica è la prova evidente di questo passaggio dal socialismo al capitalismo monopolistico di Stato (non è però un passaggio indietro in quanto la Russia zarista non aveva un capitalismo monopolistico di Stato sviluppato e consolidato). Un eventuale ritorno della Russia al socialismo non si realizzerà nella forma classica sovietica della statalizzazione di tutti i mezzi di produzione e della proprietà.
Quarto e ultimo interrogativo: qual è la forma di società più favorevole per avviare processi di transizione in senso socialista? Non vi è a questo interrogativo una risposta univoca. La questione deve essere posta in altri termini. Il socialismo è una visione antitetica al capitale, in tutte le sue diverse forme e mutazioni. Qualsiasi processo rivoluzionario che limita l’azione espansiva del capitale, fino a determinare le condizioni di un suo superamento in prospettiva storica, è da considerare positivo, da sostenere.
In conclusione, pur restando sostanzialmente valida la concezione materialistica di Marx, senza la quale sarebbe impossibile comprendere le diverse fasi della storia, occorre intrepretarla non in termini deterministici, ma tenendo presente, come insegnano Lenin e soprattutto Gramsci, che fattori sovrastrutturali possono condizionare lo sviluppo della stessa struttura.