di Giovanni Barbera*
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è già cominciato a pesare sull’economia europea. Con l’annuncio di dazi del 30% su una vasta gamma di prodotti europei, dagli alimentari ai componenti industriali, a partire dal 1° agosto, gli Stati Uniti aprono un nuovo fronte di guerra commerciale, colpendo direttamente i propri “alleati” transatlantici. Non si tratta di una minaccia generica: la misura è formalmente notificata, ha già avuto l’effetto di congelare relazioni commerciali chiave e, se attuata, avrà conseguenze gravi per le economie più fragili della UE, Italia in testa.
Un’Europa che subisce e non decide
La risposta dell’Unione Europea è, come già in passato, debole e difensiva. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha parlato di “contromisure” e di disponibilità a un confronto, ma il messaggio che arriva da Bruxelles è lo stesso di sempre: rinviare, trattare, sperare. Si continua a parlare di libero mercato e multilateralismo mentre gli Stati Uniti praticano senza vergogna un protezionismo selettivo, che tutela le proprie filiere e punisce chi non si allinea.
Questo atteggiamento, oltre a essere economicamente fallimentare, rivela tutta la fragilità politica dell’Unione. Da anni Bruxelles ha abdicato a ogni politica industriale autonoma, lasciando che la logica della concorrenza e della specializzazione spinta determinasse la struttura produttiva dei Paesi membri. In nome della “competitività”, si è distrutta ogni capacità di pianificazione, e oggi l’Europa si trova senza strumenti né visione per fronteggiare una crisi commerciale di questa portata.
Il silenzio complice del governo italiano
Se l’Europa balbetta, il governo Meloni resta in silenzio, o peggio ancora, si limita a ripetere le posizioni della Commissione, mostrando la consueta sudditanza nei confronti di Washington. Nessuna voce si è alzata da Palazzo Chigi per difendere le imprese e i lavoratori italiani che saranno colpiti dai dazi: dal comparto vitivinicolo a quello delle macchine utensili, dall’agroalimentare alla componentistica. Anzi, si parla di “compensazioni” e “ristori”, come se fossimo di fronte a un evento naturale, e non a una scelta politica deliberata che richiederebbe una risposta di pari forza.
Meloni, che ama proclamare a ogni occasione il primato dell’interesse nazionale, tace quando l’interesse nazionale viene calpestato dagli Stati Uniti. La realtà è che l’atlantismo di questo governo, come dei precedenti, non ha nulla a che fare con la cooperazione tra popoli: è una scelta strategica di subalternità, che si accetta per continuare a partecipare da comprimari alle avventure belliche e agli affari del blocco occidentale.
Un’alternativa esiste: ricostruire la capacità pubblica di orientare l’economia
Di fronte a questo scenario, la scelta non è tra il neoliberismo globalista e il protezionismo nazionalista. Entrambe le opzioni sono fallimentari, perché rispondono alle esigenze delle grandi potenze e del capitale, non a quelle delle popolazioni. L’unica alternativa concreta è ricostruire una capacità pubblica di orientare l’economia, a livello nazionale ed europeo.
Questo significa, in primo luogo, riprendere in mano le leve della politica industriale: investimenti pubblici diretti nei settori strategici, sostegno alle filiere produttive interne, tutela dei distretti colpiti dalla crisi, piani di riconversione tecnologica e ambientale, legati a garanzie occupazionali. È necessario proteggere l’occupazione e la produzione, non con dazi improvvisati, ma con strumenti selettivi, ispirati alla sostenibilità sociale e ambientale, e al principio di sovranità economica condivisa.
In secondo luogo, serve una radicale revisione dei vincoli imposti dall’UE: le regole che oggi impediscono agli Stati di intervenire nell’economia – in nome della concorrenza e del “pareggio di bilancio” – devono essere superate. La crisi globale impone scelte forti: o l’Europa cambia modello, oppure continuerà a essere una colonia economica degli Stati Uniti e un mercato di sbocco per le merci di chi ha saputo difendere la propria capacità produttiva.
Una proposta credibile e praticabile
Queste non sono proposte ideologiche, ma misure urgenti e ragionevoli in un mondo sempre più instabile. La pandemia, la guerra in Ucraina, la crisi climatica e ora i dazi americani hanno dimostrato che il mercato globale non è né stabile né equo. Solo politiche economiche fondate sulla pianificazione, sull'interesse collettivo, sull'investimento pubblico e sulla cooperazione tra Stati possono garantire stabilità, occupazione e transizione ecologica.
Non servono nuovi dogmi, ma volontà politica. Serve il coraggio di rimettere il lavoro, la produzione e il benessere delle persone al centro delle politiche economiche. Serve costruire un’alternativa europea e italiana che rompa con la logica della dipendenza e del ricatto.
È tempo che tutte le forze sociali e politiche che rifiutano il declino e la subordinazione si uniscano per costruire un’alternativa fondata sulla democrazia economica, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà internazionale.
* Segreteria nazionale PRC-SE
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