di Giovanni Barbera
L’analisi recente di Emiliano Brancaccio sul cosiddetto “neo-imperialismo dell’Unione creditrice”, riportata in un articolo pubblicato su “Il Manifesto” del 13 agosto, parte da un dato reale: l’aumento della spesa militare europea per l’Ucraina, oggi superiore a quella statunitense. Tuttavia, da questa osservazione trae una conclusione fuorviante: quella di un avvio di una fase autonoma di “imperialismo europeo” basata sulla forza finanziaria e sulla proiezione bellica.
Da un punto di vista marxista, questa tesi presenta almeno tre debolezze fondamentali: la definizione impropria del concetto di imperialismo, la sottovalutazione della natura del conflitto in corso e l’assenza di un’analisi dei rapporti di classe che sorreggono queste dinamiche.
L’imperialismo: non solo potenza militare e saldo finanziario
Secondo la tradizione marxista — da Lenin a Luxemburg, passando per Baran e Sweezy — l’imperialismo non si riduce a un “livello di spesa militare” né a una semplice condizione di creditore netto verso il resto del mondo. Si tratta piuttosto di un processo storico radicato nella concentrazione del capitale, nella fusione tra capitale industriale e finanziario, nella spartizione del mercato mondiale e nella subordinazione delle periferie alle metropoli.
Misurare l’imperialismo in base al saldo delle partite correnti o alla capacità di finanziare una guerra rischia di ridurlo a un fenomeno contabile, ignorando la dimensione strutturale dei rapporti di produzione e delle catene globali del valore. L’Unione Europea — pur essendo creditrice netta — resta profondamente dipendente da mercati, tecnologie e infrastrutture strategiche sotto controllo statunitense. La sua forza creditizia non si traduce automaticamente in autonomia imperialista.
Questa impostazione teorica - come vedremo di seguito - consente di leggere i successivi elementi — crescita della spesa militare, tentativo di costruire un complesso militare-industriale europeo e surplus esterno — come mere manifestazioni di questa dipendenza strutturale, piuttosto che come indicatori di una nuova fase di imperialismo autonomo.
Spesa militare: crescita reale, subordinazione strutturale
È un dato oggettivo che la spesa difensiva dei paesi UE sia cresciuta drasticamente: tra il 2021 e il 2024, l’aumento ha superato il 30%, raggiungendo circa 326 miliardi di euro nel 2024, pari all’1,9% del PIL dell’UE (Consiglio UE). Nei soli Stati membri NATO, la quota sale all’1,99% nel 2024 e potrebbe arrivare al 2,04% nel 2025 (EUobserver). Secondo SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), nel 2024 i membri NATO europei hanno speso 454 miliardi di dollari, equivalenti al 30% del totale NATO.
Tuttavia, questa apparente spinta all’autonomia militare è ingombrata da profonde contraddizioni. L’Europa resta fortemente dipendente dagli armamenti statunitensi: il 64% delle importazioni di armamenti dei membri NATO europei proviene dagli USA (SIPRI, Bloomberg, Guardian). Le tecnologie più sofisticate — jet F-35 e sistemi missilistici avanzati — restano statunitensi, dimostrando la persistenza di un rapporto di subordinazione. In altre parole, si tratta di un aumento della clientela, non della capacità autonoma .
Il “complesso militare-industriale europeo”: lontano dall’autonomia
La costruzione di un sistema industriale militare europeo è in corso. Il piano EDIS (European Defence Industrial Strategy) del 2024 mira a rafforzare le industrie interne, sebbene gli investimenti finora rimangano modesti (circa 1,5 miliardi su un piano da 100 miliardi). La produzione bellica accelera: stabilimenti europei si espandono a ritmo triplo rispetto al periodo di pace, con nuovi impianti per munizioni e armamenti. L’UE ha inoltre introdotto piani come SAFE (€150 miliardi) e prestiti per l’industria difensiva.
Tuttavia, il processo resta frammentato, costoso e ostacolato da nazionalismi e duplicazioni industriali. Le capacità tecnologiche strategiche — software, difesa ad alta quota, sistemi satellitari — restano saldamente statunitensi.
Surplus esterno: una forza illusoria
L’UE presenta un significativo surplus del conto corrente. Nel quarto trimestre del 2024 il surplus stagionalmente aggiustato ammontava a 113,2 miliardi di euro, pari al 2,5% del PIL (Commissione Europea). Nel primo trimestre 2025, il surplus è cresciuto ancora, arrivando a 114 miliardi di euro, sempre il 2,5% del PIL (Commissione Europea). Dati simili emergono anche da CEIC (una banca dati internazionale di statistiche economiche), che segnala un 2,7% del PIL nel dicembre 2024.
Interpretare questi dati come segno di potenza imperialista è fuorviante, in quanto sono un prodotto del sistema di estrazione di valore dal lavoro, interno ed esterno all’UE, che non si traducono in leva reale per un imperialismo effettivo. Piuttosto, rafforzano le gerarchie interne al capitalismo globale.
Il conflitto attuale: difesa dell’egemonia occidentale
La guerra in Ucraina non va letta come il prodotto di uno scontro simmetrico tra tre poli imperialisti (USA, UE e Russia), bensì come il tentativo del blocco occidentale di conservare la propria egemonia globale in un mondo in cui lo sviluppo economico ha determinato la nascita di nuovi attori internazionali non allineati.
La Russia è certamente una potenza militare di rilievo, ma non possiede la struttura economica e finanziaria per essere considerata un paese imperialista in senso marxiano. La sua economia rimane fortemente dipendente dall’export di materie prime, in particolare petrolio e gas. L’industria manifatturiera avanzata e la tecnologia ad alto contenuto strategico sono relativamente limitate, e le catene del valore globali restano dominate da paesi occidentali e asiatici.
Il peso della Russia nella divisione internazionale del lavoro si concentra sull’industria bellica e sulle esportazioni energetiche, settori che da soli non consentono un controllo sistemico sull’economia globale. Nonostante possieda capacità militari significative, non può condizionare le dinamiche di mercato, gli investimenti finanziari o le tecnologie critiche a livello internazionale.
In termini marxisti, il criterio per definire un paese imperialista non è la mera potenza militare, ma la capacità di esportare capitale e di imporre vincoli economici e politici a paesi subordinati, cosa che la Russia realizza solo parzialmente e in ambiti circoscritti. La sua influenza resta quindi limitata, ancora subordinata alle infrastrutture tecnologiche, finanziarie e commerciali controllate da altri poli globali, soprattutto gli Stati Uniti e l’UE.
Militarizzazione, disciplinamento sociale e nuova bolla finanziaria
Dal punto di vista marxista, militarizzazione e surplus non sono fini a sé stessi, ma strumenti funzionali al mantenimento dei rapporti di produzione esistenti e al controllo interno delle società capitalistiche avanzate. La crescente spesa militare non risponde solo a logiche di potenziamento bellico, ma serve a disciplinare il lavoro, giustificare tagli alla spesa sociale e indirizzare ingenti risorse pubbliche verso i settori strategici del capitale monopolistico transnazionale.
I paesi “creditori netti” come Germania, Paesi Bassi e Svezia sono anche quelli che hanno promosso più aggressivamente politiche di compressione salariale, deregolamentazione e privatizzazione, trasferendo il peso dell’aggiustamento non solo sulle classi lavoratrici interne, ma anche sulle periferie europee (Italia, Grecia, Europa dell’Est) e sui paesi della periferia globale, tramite catene del valore asimmetriche.
Il legame tra militarismo e surplus esterno alimenta inoltre nuove bolle finanziarie. Le politiche di sostegno all’industria bellica si accompagnano a incentivi fiscali e a un crescente indebitamento pubblico e privato, mentre i titoli di debito legati alla difesa vengono trattati come asset sicuri, riproducendo logiche speculative già viste nella fase che ha preceduto la crisi del 2008. In questo scenario, come già avvenuto nel passato recente, saranno le classi popolari a pagare il prezzo più alto della futura crisi sistemica.
La falsa polarizzazione e la contraddizione fondamentale
Accettare la tesi di Brancaccio significa spostare la contraddizione principale sul piano dello scontro tra imperialismi (USA vs UE vs Russia), distogliendo l’attenzione dalla contraddizione fondamentale, quella tra capitale e lavoro, che attraversa tutti i blocchi.
L’Unione Europea non è un polo autonomo in grado di contendere la leadership globale agli Stati Uniti; resta parte integrante dell’architettura imperiale guidata da Washington, con una militarizzazione che ha la funzione di consolidare il potere interno delle proprie classi dirigenti e preservare l’egemonia dell’intero blocco occidentale nel nuovo scenario multipolare.
Conclusione: militarizzazione subordinata, non autonomia
La crescente spesa militare europea, l’apparente forza creditizia e i tentativi di costruire un complesso militare-industriale non segnalano l’emergere di un imperialismo europeo autonomo. Al contrario, mostrano un processo di militarizzazione subordinata, funzionale alla strategia statunitense di mantenere il primato del blocco occidentale in un mondo multipolare emergente.
Smontare la retorica dell’“Europa guerriera” significa riconoscere che l’UE agisce come blocco integrato e subalterno all’imperialismo USA, utilizzando la guerra per rafforzare il dominio del capitale e impedire ogni alternativa sociale e politica.
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