di Giovanni Barbera*
Le dichiarazioni rilasciate dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, durante l’assemblea di Rapallo del 14 giugno 2025, meritano una risposta politica netta. A fronte di una situazione sociale ed economica sempre più drammatica — salari bassi, precarietà diffusa, crisi ambientale e desertificazione industriale — il vertice degli industriali italiani invoca “azioni forti e immediate” a favore delle imprese. La proposta? Un fondo straordinario da 8 miliardi per incentivare l’export, misure “semplici e facili da utilizzare” per le aziende, nuovi sgravi fiscali, meno vincoli e meno regole.
Siamo di fronte all’ennesima versione aggiornata di una ricetta vecchia, già fallita e profondamente iniqua: quella di un’economia fondata sulla socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti. In altre parole: soldi pubblici senza vincoli, profitti privati senza responsabilità.
Negli ultimi trent’anni lo Stato italiano ha riversato centinaia di miliardi di euro in sussidi, incentivi e detassazioni a favore delle imprese. A questi trasferimenti, spesso poco trasparenti e scarsamente monitorati, non è mai corrisposta una vera contropartita sociale: non è cresciuto l’investimento produttivo, non è aumentata l’occupazione stabile, non è migliorata la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori.
Anzi, secondo i dati dell’ISTAT e della Banca d’Italia, l’Italia è tra i Paesi europei in cui i salari reali sono cresciuti meno — in molti casi sono addirittura diminuiti. L’occupazione è stata drogata da forme contrattuali precarie, il Mezzogiorno continua a spopolarsi, e i giovani fuggono all’estero. Intanto, gli extraprofitti delle grandi aziende — soprattutto energetiche, logistiche, farmaceutiche e della grande distribuzione — continuano ad aumentare.
In questo contesto, parlare ancora di “misure forti per le imprese” suona non solo fuori luogo, ma offensivo. L’urgenza non è salvare l’export, ma ricostruire il tessuto sociale e produttivo del Paese a partire dai bisogni reali delle persone.
Da tempo denunciamo la mancanza, in Italia, di una vera politica industriale pubblica. I governi che si sono succeduti negli ultimi decenni hanno abdicato alla funzione di guida e regolazione dello sviluppo economico, limitandosi a distribuire incentivi e a rincorrere la competitività sui mercati globali attraverso la compressione dei diritti e del costo del lavoro.
Questa logica va rovesciata. Serve un piano industriale nazionale che:
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orienti gli investimenti verso settori strategici per la transizione ecologica e digitale;
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sostenga le imprese pubbliche e cooperative;
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vincoli gli incentivi pubblici a precisi impegni occupazionali e territoriali;
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restituisca allo Stato un ruolo attivo nella pianificazione economica e produttiva.
Basta con le regalie alle imprese che delocalizzano o che licenziano. Basta con i fondi pubblici usati per aumentare i dividendi degli azionisti. Chi prende soldi pubblici deve essere tenuto a garantire posti di lavoro stabili, salari dignitosi, investimenti in ricerca, rispetto ambientale, trasparenza fiscale. Non è più tollerabile che i soldi delle italiane e degli italiani servano ad arricchire chi non restituisce nulla alla collettività.
L’Italia ha bisogno di un’altra direzione. Occorre rompere con il paradigma neoliberale che ha guidato la politica economica degli ultimi decenni e che oggi si ripresenta con le proposte di Orsini e Confindustria. La vera “azione forte” di cui ha bisogno il Paese è quella capace di redistribuire ricchezza, rilanciare il lavoro di qualità, affrontare la crisi climatica e ambientale.
Per questo va proposta:
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una riforma fiscale radicale che introduca una patrimoniale progressiva sulle grandi ricchezze e un’imposizione efficace sui profitti delle multinazionali, ristabilendo l'impostazione progressiva del sistema fiscale;
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un piano nazionale per il lavoro stabile e sicuro, con salario minimo legale, stop al precariato, contratti veri e rafforzamento della contrattazione collettiva;
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investimenti pubblici massicci in sanità, istruzione, edilizia popolare, politiche sociali, trasporti ecologici e digitalizzazione democratica;
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una transizione ecologica giusta, che non faccia pagare ai lavoratori e alle fasce popolari i costi della riconversione, ma li renda protagonisti del cambiamento.
Le richieste di Confindustria, sostenute da gran parte delle forze politiche istituzionali, confermano quanto siano profonde le disuguaglianze nel nostro Paese e quanto urgente sia la necessità di una risposta politica radicale.
Noi crediamo che una società diversa sia possibile, ma va costruita dal basso, con le lavoratrici e i lavoratori, con i giovani, con i movimenti sociali e ambientalisti, con le comunità locali che resistono alla privatizzazione dei beni comuni.
Contro la restaurazione padronale che si nasconde dietro la parola “competitività”, va rilanciata con forza la battaglia per un’economia democratica, fondata sulla dignità del lavoro, la giustizia sociale e ambientale e il primato dell’interesse collettivo su quello privato.
*Segreteria nazionale PRC - SE
