martedì 11 novembre 2025

Una legge di bilancio per i forti: la manovra Meloni 2026

 di Giovanni Barbera*

La legge di bilancio per il 2026, licenziata dal governo il 9 ottobre 2025, conferma un’impostazione liberista e selettiva delle priorità pubbliche. Presentata come “seria e responsabile”, dietro la retorica della stabilità si nasconde la scelta chiara di scaricare i costi della crisi sui lavoratori e sui ceti popolari, tutelando rendite e profitti. La narrazione governativa parla di una manovra utile al Paese, ma la sostanza è una politica che consolida privilegi e aumenta le disuguaglianze.

La manovra ha un peso complessivo di circa 18 miliardi di euro medi annui nel triennio 2026‑2028 e mira a ridurre il deficit al 2,8% del PIL, in linea con la nuova disciplina europea. Il taglio dell’aliquota IRPEF dal 35% al 33% per i redditi tra 28.000 e 50.000 euro, con un costo stimato di 2,8 miliardi, favorisce soprattutto i redditi medio-alti, mentre il beneficio per chi guadagna 30.000 euro lordi resta minimo (secondo simulazioni, circa 90 euro annui), raggiungendo i 440 euro per chi arriva a 50.000 euro. Una misura regressiva che non riduce le disuguaglianze ma le rafforza, mostrando come il governo intenda privilegiare chi ha già un reddito medio‑alto.

Sul fronte del lavoro, la manovra stanzia circa 2 miliardi per rinnovi contrattuali e premi di produttività, senza affrontare la precarietà o l’aumento dei salari reali, che restano stagnanti da oltre vent’anni. La questione del salario minimo rimane ignorata, e il ricorso a incentivi e premi aziendali consolida il potere padronale a scapito della contrattazione collettiva. In un contesto di precarietà dilagante e inflazione che erode il potere d’acquisto, queste misure risultano insufficienti a garantire la dignità del lavoro.

La sanità pubblica subisce le illusioni contabili più evidenti. Il Fondo Sanitario Nazionale passa da circa 136,5 miliardi nel 2025 a 143,1 miliardi nel 2026, con un incremento nominale di 6,6 miliardi (+4,8%). Tuttavia, solo 2,4 miliardi derivano da nuovi stanziamenti; il resto proviene da rifinanziamenti già previsti o partite di giro come i rinnovi contrattuali del personale e fondi PNRR. La quota di spesa sanitaria in rapporto al PIL cresce dal 6,04% al 6,16%, per poi ridiscendere allo 5,93% nel 2028. Secondo le stime regionali, per mantenere invariati i livelli essenziali di assistenza sarebbe servito almeno un incremento di 7-8 miliardi. Il risultato è un servizio sanitario pubblico ulteriormente indebolito, con nuove chiusure di reparti, liste d’attesa più lunghe, riduzione delle prestazioni territoriali e un ricorso crescente alla sanità privata accreditata, accessibile solo a chi può permettersela.

La scuola e l’università restano marginali nella distribuzione delle risorse. Gli incrementi nominali coprono solo scatti stipendiali e manutenzione ordinaria, senza affrontare il precariato diffuso, la dispersione scolastica e la carenza di personale educativo. Per l’università, gli stanziamenti aggiuntivi di circa 200 milioni servono quasi esclusivamente a fondi premiali, lasciando in secondo piano il diritto allo studio e la qualità dell’istruzione. Il risultato è un sistema educativo sempre più diseguale, in cui le scuole e le università periferiche vengono penalizzate a favore degli atenei maggiori e più ricchi.

Le politiche sociali confermano l’abbandono dei più fragili. Dopo la cancellazione del reddito di cittadinanza, non viene introdotto alcun strumento universale di contrasto alla povertà. La cosiddetta “Carta Dedicata a Te”, con 650 milioni, copre meno di un decimo delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Nessun piano strutturale è previsto per il diritto all’abitare, mentre il fondo per gli affitti e quello per la morosità incolpevole restano bloccati. Nel frattempo, le rendite immobiliari continuano a essere premiate con agevolazioni fiscali per le locazioni brevi e incentivi edilizi che alimentano la speculazione, mentre chi non possiede un’abitazione paga il prezzo di un mercato sempre più esclusivo.

Le imprese, al contrario, ricevono circa 8 miliardi tra incentivi, crediti d’imposta e agevolazioni per investimenti in beni strumentali. È un trasferimento diretto di risorse pubbliche al capitale privato, giustificato con la retorica della competitività, mentre il lavoro e i servizi pubblici restano sottofinanziati.

La spesa militare cresce senza freni: la “spesa militare pura” prevista per il 2026 è di 33,948 miliardi, con un incremento di circa 1 miliardo (+2,8%) rispetto al 2025. Il bilancio del Ministero della Difesa arriva a 32,398 miliardi, di cui 13,167 miliardi destinati agli investimenti in armamenti (+1,42%). In un contesto in cui sanità, istruzione e politiche sociali ricevono incrementi minimi e largamente insufficienti, questa scelta politica rivela chiaramente le priorità del governo: armamenti e missioni esterne prima dei bisogni reali della popolazione.

Il quadro complessivo mostra una manovra costruita su priorità rovesciate: si taglia sul sociale per mostrare all’Europa conti “in ordine”, si finanziano imprese e difesa per compiacere mercati e alleati, e si alimentano illusioni di sostegno ai ceti medi con misure che, alla prova dei numeri, risultano inefficaci o regressivamente redistributive. Chi trae vantaggio è chi ha già di più: redditi medio-alti, imprese, proprietari immobiliari, gruppi legati alla finanza e alla difesa. Chi paga sono lavoratori, pensionati, precari e famiglie dipendenti dai servizi pubblici.

Dietro la narrazione dell’orgoglio nazionale e della responsabilità contabile, la legge di bilancio 2026 consolida le disuguaglianze, indebolisce la democrazia e lascia l’Italia più fragile e diseguale. Non è una cura per il Paese, ma la prosecuzione della malattia sociale che lo affligge da anni, con l’aggravante di farla passare per buona amministrazione.

* Segreteria nazionale Prc-Se