domenica 12 ottobre 2025

Il paternalismo del marxismo occidentale e la lezione dei processi socialisti nel Sud del mondo

di Giovanni Barbera

Chi vive in Occidente giudica i processi rivoluzionari dei paesi in via di sviluppo con il metro del proprio privilegio. È il riflesso di un marxismo che ha dimenticato l’imperialismo e la decolonizzazione.

C’è un tratto ricorrente in molti dibattiti “progressisti” che si sviluppano in Europa o nel resto dell'Occidente ogni volta che si parla di Venezuela, Cuba o Nicaragua: un atteggiamento di superiorità morale e culturale, travestito da analisi critica.

È la convinzione, spesso inconscia, che i popoli del Sud del mondo debbano costruire il socialismo seguendo le regole, i tempi e i valori dell’Occidente, come se la storia fosse un esame di civiltà.

Chi vive in un paese industrializzato e benestante giudica le rivoluzioni altrui con gli occhi del proprio comfort politico, dimenticando che quel benessere è figlio del colonialismo e dello sfruttamento globale. Così, il socialismo latinoamericano, asiatico o africano viene costantemente misurato sul metro di democrazie nate dentro imperi coloniali.

Le contraddizioni reali della trasformazione sociale


Ogni processo rivoluzionario è contraddittorio, imperfetto, pieno di svolte e tensioni. Il Venezuela bolivariano, che da più di venticinque anni resiste a colpi di Stato, sabotaggi e sanzioni, ne è un esempio emblematico.

In condizioni di accerchiamento economico e militare, è inevitabile che emergano fenomeni di centralizzazione del potere e di burocrazia. Ma ridurre tutto ciò a un problema “morale” o “autoritarista” significa ignorare la dimensione materiale e politica di quel processo.

Le rivoluzioni non si sviluppano in laboratorio, ma in condizioni di conflitto. Chi pretende un socialismo senza contraddizioni, lineare,  senza difesa armata, dimostra di non aver mai compreso che il socialismo - quello che si misura con la realtà e non con l'utopia - si costruisce dentro una guerra asimmetrica contro l’imperialismo.

Il marxismo occidentale e la rimozione dell’imperialismo


È qui che emerge la crisi profonda del cosiddetto marxismo occidentale. Una corrente che, pur avendo dato contributi teorici importanti, ha progressivamente perso il legame con la realtà materiale della lotta di classe su scala mondiale.

Dopo la Seconda guerra mondiale, gran parte della sinistra europea ha rimosso la questione coloniale e antimperialista, rifugiandosi nella critica culturale, nel dibattito accademico, nella filosofia della forma o dell’egemonia. Mentre in Asia, Africa e America Latina il socialismo prendeva corpo nelle guerre di liberazione nazionale, in Europa si parlava di rivoluzione come di un concetto estetico o morale.

A questo atteggiamento paternalistico non sfuggono neppure molti di coloro che, pur proclamandosi radicali, nel proprio paese non sono mai riusciti a costruire nulla di concreto, né sul piano politico né su quello organizzativo.

Privi di radicamento sociale e di rappresentanza reale, si rifugiano nella critica astratta dei processi altrui, come se il giudizio dall’alto potesse compensare l’incapacità di incidere nella propria realtà. È il riflesso di un certo moralismo impotente, che scambia la purezza ideologica per forza politica.

Così, il marxismo occidentale ha finito per guardare dall’alto i processi reali del Sud del mondo, accusandoli di autoritarismo, di populismo o di “ritardo democratico”. È la ripetizione aggiornata e riveduta dello stesso schema coloniale e suprematista di sempre: l’Europa che insegna, il resto del mondo che deve imparare.

Decolonizzare il pensiero socialista


La crisi del marxismo occidentale nasce qui: nell’incapacità di coniugare la lotta di classe con la lotta antimperialista. Un socialismo che non affronta la questione coloniale è un socialismo mutilato, incapace di parlare alle nuove generazioni e ai popoli che oggi subiscono le forme più violente del capitalismo globale.

Decolonizzare il pensiero socialista significa riconoscere che non esiste un solo modello di socialismo. Significa capire che la democrazia, nei paesi in via di sviluppo, non può avere la stessa forma che assume in una potenza occidentale. Significa, infine, accettare che le contraddizioni e gli errori sono parte del processo stesso di emancipazione.

Per un nuovo internazionalismo


La vera solidarietà internazionalista non è quella che giudica, ma quella che comprende e sostiene. Chi vive in un paese occidentale non dovrebbe pretendere che i popoli sotto assedio rispettino le nostre regole, ma piuttosto imparare da loro cosa significa resistere in un mondo diseguale.

Le imperfezioni dei processi rivoluzionari del Sud del mondo non ne cancellano il significato, né la loro portata storica. Sono, piuttosto, il riflesso di un conflitto globale che continua a contrapporre chi vuole mantenere il dominio e chi cerca di spezzarlo.

Solo un internazionalismo rinnovato, capace di unire le lotte sociali del Nord e del Sud del pianeta, potrà restituire forza al progetto socialista. Un internazionalismo che non sia compassione o paternalismo, ma coscienza di una battaglia comune contro l’imperialismo e le sue nuove forme di dominio.

Perché la storia – e la costruzione del socialismo – non sono mai un pranzo di gala.