di Giovanni Barbera*
Negli Stati Uniti si sta consumando un conflitto sempre più evidente tra due modelli di capitalismo: da un lato, il potere consolidato dei grandi gruppi finanziari globali; dall’altro, le realtà produttive e imprenditoriali che hanno costituito la base economica del consenso a Donald Trump. Questo scontro, che attraversa la politica, l’economia e i mercati finanziari, riflette una frattura più profonda all’interno del capitalismo statunitense, e più in generale del capitalismo occidentale.
Al vertice della piramide del capitale finanziario americano si trovano tre colossi: BlackRock, Vanguard e State Street Global Advisors. Insieme, questi tre asset manager controllano oltre 20.000 miliardi di dollari in asset sotto gestione, una cifra superiore al PIL combinato di Stati Uniti e Giappone. Solo BlackRock gestisce circa 9.000 miliardi, Vanguard circa 8.000, e State Street oltre 4.000 miliardi.
Questi gruppi detengono partecipazioni azionarie rilevanti – e spesso congiunte – in quasi tutte le principali società americane, tra cui Apple, Microsoft, Amazon, ExxonMobil, JPMorgan Chase e molte altre. Di fatto, sono i veri azionisti stabili del capitalismo globale, con potere di voto sulle decisioni aziendali e una crescente influenza sulle politiche ESG (ambientali, sociali e di governance).
Questa concentrazione di capitale si muove su una logica essenzialmente globalista: l’interesse principale di questi attori è la stabilità dei mercati internazionali, l’integrazione delle catene del valore e l’espansione di una finanza digitalizzata e deregolamentata, in grado di operare senza vincoli territoriali. Per loro, politiche come i dazi doganali, la rivalutazione della produzione nazionale o il ritorno al carbone sono ostacoli, non soluzioni.
In netto contrasto con questa visione, si è sviluppata una rete economica che ha sostenuto e continua a sostenere Donald Trump, composta da settori industriali più tradizionali, da grandi compagnie energetiche legate al petrolio e al gas, e da un tessuto imprenditoriale costituito da PMI (piccole e medie imprese), in particolare nelle aree rurali e negli stati del Midwest e del Sud.
Nel 2016 e nel 2020, gran parte del sostegno economico e politico a Trump è venuto da queste realtà. Secondo i dati della Federal Election Commission, tra i principali donatori figurano aziende e lobby del settore fossile (come Koch Industries), grandi attori dell’industria manifatturiera e del comparto agricolo, oltre a network di imprenditori locali riuniti in associazioni come la National Federation of Independent Business (NFIB), molto influente tra le PMI.
Le politiche adottate da Trump durante il suo primo mandato – tagli fiscali per le imprese, deregolamentazione ambientale, uscita dall’accordo di Parigi sul clima, promozione dell’industria petrolifera domestica – hanno rispecchiato gli interessi di queste categorie economiche. Il protezionismo, l'enfasi sulla produzione interna e l'opposizione a certe politiche climatiche considerate penalizzanti per l'industria pesante si sono scontrati frontalmente con l’agenda dei grandi gruppi finanziari.
Quello che emerge è uno scontro tra due modelli di accumulazione del capitale:
Il primo, rappresentato dai gestori patrimoniali e dalla finanza globalizzata, fonda il proprio potere sull’interconnessione dei mercati, sull’automazione, sulla digitalizzazione e sul controllo di asset immateriali. Questo modello si nutre della mobilità del capitale e di una governance aziendale orientata al lungo periodo e agli standard internazionali.
Il secondo, più legato al “capitale produttivo” interno, guarda invece al valore del lavoro nazionale, alla filiera corta, alla sovranità energetica e alla tutela dei settori tradizionali, spesso messi in crisi dalla concorrenza estera e dalla finanza speculativa.
I grandi gruppi finanziari, sebbene formalmente neutrali, hanno mostrato segnali di allontanamento da Trump, soprattutto nel periodo post-elettorale del 2020, dopo l’assalto al Congresso. Alcune banche e fondi, tra cui BlackRock, hanno preso le distanze, sospendendo temporaneamente le donazioni a candidati che avevano messo in dubbio l’esito delle elezioni. Anche molte grandi aziende tech e multinazionali, in cui questi fondi sono azionisti rilevanti, si sono progressivamente allineate a posizioni più istituzionali e liberali.
Il confronto non è solo politico, ma sistemico. Dopo la crisi pandemica e nel pieno delle tensioni geopolitiche con Cina e Russia, gli Stati Uniti stanno ridefinendo il loro ruolo nel mondo. In questo contesto, lo scontro tra le due anime del capitale riflette la difficoltà di conciliare le esigenze della competitività globale con la coesione sociale interna.
Dal punto di vista marxista, lo scontro tra la finanza globalizzata e il capitalismo "trumpiano" è un'espressione concreta della crisi del modo di produzione capitalistico, che nei paesi a capitalismo avanzato sta attraversando una fase di difficoltà nella valorizzazione del capitale. La finanza – nella sua forma più astratta e concentrata – ha da tempo preso il sopravvento sulla produzione, accentuando quella tendenza già denunciata da Marx nella formula D–D', ovvero il passaggio diretto da denaro a più denaro, senza mediazione produttiva.
Il conflitto tra capitale finanziario e capitale produttivo può essere interpretato, dunque, come una lotta intestina all’interno della borghesia per ridefinire nuovi equilibri nella ripartizione del plusvalore in un contesto di stagnazione economica relativa, crisi ecologica e instabilità geopolitica.
I grandi fondi rappresentano l'apice della centralizzazione del capitale e della sua astrattezza: si muovono su scala globale, puntano alla massimizzazione del rendimento attraverso strumenti derivati e asset immateriali, e non necessitano più della mediazione del lavoro produttivo nel senso classico. Dall’altro lato, il capitale che sostiene Trump è ancora legato alla valorizzazione tradizionale, fondata sulla produzione materiale e sull’estrazione diretta di plusvalore dalla forza-lavoro.
In prospettiva storica, la tendenza è quella della subordinazione crescente del lavoro vivo al capitale morto. Perciò, nel lungo periodo, la frazione vincente sarà quella che meglio incarna questa evoluzione: la finanza globalista non è un’anomalia, ma la naturale espressione di un capitalismo maturo che cerca nuove forme di estrazione del valore.
In chiave marxista, lo scontro tra queste due frazioni del capitale può aprire scenari diversi:
1) Autoritarismo e bonapartismo: in una fase di crisi organica e indebolimento delle mediazioni democratiche, il capitale può appoggiarsi a figure forti per garantire la propria riproduzione. Trump incarna una forma di bonapartismo reazionario che cerca di riorganizzare lo Stato come strumento di lotta tra borghesie rivali.
2) Declino dell'egemonia e multipolarismo: la fragilità interna degli Stati Uniti si intreccia alla perdita di egemonia globale. La borghesia finanziaria si regge su un sistema internazionale basato sul dollaro, ma le spinte protezioniste e i conflitti geopolitici minano questo equilibrio.
3) Nuove forme di dominio: la centralità della tecnologia, dei dati e della sorveglianza digitale prefigura forme avanzate di sussunzione della vita intera, dove il lavoro vivo è sostituito da comportamenti misurati e monetizzati attraverso piattaforme e intelligenza artificiale.
Infine, nessuna delle due fazioni in conflitto rappresenta gli interessi delle classi lavoratrici. Ma le loro contraddizioni possono aprire spazi politici inediti. Se queste lacerazioni saranno intercettate da forze progressiste e organizzate, capaci di rompere con l'ordine capitalistico, allora potrà emergere un'alternativa reale. In caso contrario, prevarranno soluzioni autoritarie e reazionarie.
Lo scontro interno al capitale statunitense non si esaurisce nei confini nazionali: ha ripercussioni dirette sul sistema-mondo e sul Sud globale. Le due fazioni rappresentano, infatti, strategie diverse di gestione dell’egemonia globale americana. Il capitale finanziario, guidato dai grandi asset manager, ha promosso un modello di globalizzazione liberista che ha spinto alla dipendenza strutturale del Sud globale dai flussi di capitale, dal debito e dalle esportazioni verso il Nord. Questo ha alimentato disuguaglianze globali, processi di land grabbing, estrattivismo e subordinazione tecnologica.
Il blocco “trumpiano”, pur opponendosi alla globalizzazione finanziaria, non propone un'alternativa progressista. Il suo approccio neocoloniale è altrettanto aggressivo: mira a difendere l’egemonia statunitense attraverso il protezionismo, l’unilateralismo militare e la spartizione predatoria delle risorse. Il sostegno al riarmo, alle sanzioni e alla pressione su governi non allineati – come quelli dell’America Latina, dell’Africa o del Medio Oriente – si colloca pienamente dentro una logica imperialista, seppur con forme meno multilaterali rispetto alla finanza globalista.
In entrambi i casi, il Sud globale resta un terreno di sfruttamento. Tuttavia, la crisi di egemonia degli Stati Uniti apre spazi per il rafforzamento di alleanze alternative, come i BRICS+, e per un ripensamento delle relazioni internazionali. Le contraddizioni interne all’imperialismo possono diventare una leva per i movimenti anticoloniali e popolari, a condizione che riescano a costruire un progetto autonomo e non subordinato alle nuove borghesie emergenti nei loro paesi.
In questo contesto, anche le classi subalterne dei paesi occidentali sono chiamate a ridefinire un proprio ruolo autonomo. La costruzione di un’alternativa politica e sociale richiede capacità di organizzazione, radicamento nei territori e ricomposizione di interessi frammentati dal neoliberismo. Solo attraverso un processo di lotta che sappia connettere le rivendicazioni locali con una visione internazionalista e anticapitalista, sarà possibile contrastare efficacemente le nuove forme di dominio e oppressione.
Lo scontro tra capitale finanziario globalista e capitale produttivo nazionalista negli Stati Uniti è il segno di una transizione storica del capitalismo. Una transizione in cui nessuna delle due fazioni propone una rottura, ma solo una riorganizzazione del dominio. Solo l’intervento autonomo e cosciente delle classi subalterne potrà trasformare questa crisi in un punto di svolta reale.
*Segreteria nazionale Rifondazione Comunista
.jpeg)