Le previsioni economiche della Commissione Europea per il 2025 e 2026 confermano quanto denunciamo da tempo: l’assetto economico europeo, costruito su vincoli di bilancio, austerità e mercato deregolato, non è in grado di garantire né crescita stabile né giustizia sociale. La crisi non è un’anomalia, ma il risultato strutturale di un modello fallimentare.
Nel 2025, la crescita del PIL sarà dello 0,9% nell’Eurozona. Numeri bassi che segnano una stagnazione prolungata in quasi tutta l’area. Ma l’Italia va ancora peggio: +0,7% nel 2025 e +0,9% nel 2026, tra le peggiori performance in Europa, dietro solo a pochi altri Paesi. A crescere davvero sono solo le disuguaglianze. Dati che stridono con quelli riguardanti la crescita globale al di fuori della UE che, nel 2025-26, è prevista al 3,2%.
L’Italia, fanalino di coda di un’Europa già in crisi
Il paragone con altri Paesi europei è impietoso. Mentre nazioni come Malta (+4,1%), Danimarca (+3,6%) e Irlanda (+3,4%) guidano la ripresa, l’Italia arranca insieme a Germania, Francia, Austria e Lettonia. Una dimostrazione evidente che il nostro sistema produttivo è fragile e incapace di rinnovarsi, complice un modello industriale sbilanciato, la riduzione del ruolo dello Stato e l’abbandono di una politica industriale pubblica.
Il Governo e la Commissione sperano che il PNRR sostenga la crescita attraverso gli investimenti, ma questa spinta si scontra con un rallentamento dei consumi privati, causato dall’erosione del potere d’acquisto e dall’instabilità lavorativa. I salari reali restano tra i più bassi d’Europa, mentre crescono profitti e rendite.
Conti pubblici sotto scacco
Il deficit pubblico dovrebbe scendere al 2,9% nel 2026, ma questo risultato è ottenuto grazie a tagli e restrizioni, non a una vera ripresa. Allo stesso tempo, il debito pubblico continuerà a salire, fino a toccare il 138,2% del PIL, anche per effetto della bassa crescita. Ma, anziché affrontare questa situazione con misure redistributive e una riforma fiscale progressiva, l’UE e i governi nazionali continuano a spingere per un ritorno alle regole di bilancio restrittive, col rischio concreto di una nuova ondata di austerità.
L’inflazione cala, ma non è una buona notizia per tutti
Nel 2025, l’inflazione italiana è prevista all’1,8%, e all’1,5% nel 2026. Ma questo calo non significa sollievo per le famiglie: l’inflazione elevata degli anni precedenti ha già colpito duramente i redditi medio-bassi, mentre i salari non sono stati adeguati. Il rallentamento attuale riflette piuttosto una domanda interna debole e un sistema produttivo incapace di innovare, non un reale miglioramento dell’economia reale.
L’Unione Europea tra stagnazione e rigidità
L’intera Unione si muove in un quadro di bassa crescita e alta incertezza. Le previsioni sono state riviste al ribasso rispetto a quelle precedenti. Il debito europeo aumenterà fino all’84,5% del PIL nel 2026, mentre il deficit complessivo salirà al 3,3%. Eppure, la risposta delle istituzioni europee è ancora una volta il ritorno alle regole del Patto di Stabilità, con tagli, vincoli e nuove stretta sulla spesa pubblica.
In un contesto globale segnato da guerre, riarmo, crisi energetiche, tensioni commerciali e transizione ecologica, servirebbero politiche espansive, protezione sociale, programmazione pubblica. Invece l’UE propone l’esatto opposto: la riproposizione di un modello già fallito nel post-2008, che ha alimentato diseguaglianze e sfiducia popolare.
Una crisi di sistema, non un inciampo
La situazione italiana non è il frutto del caso, ma l’esito diretto di trent’anni di politiche liberiste, condivise da governi di ogni colore e sostenute dalle istituzioni europee. La precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dei servizi pubblici, il taglio sistematico dei salari reali sono la vera causa della stagnazione.
Ma anche il rallentamento generale dell’Europa dimostra che non basta puntare il dito solo contro i governi nazionali. È l’impianto economico dell’UE ad aver fallito, la sua architettura istituzionale tecnocratica, l’assenza di una vera democrazia economica, la subordinazione della politica alle regole del mercato e della finanza.
Conclusione: cambiare radicalmente rotta
I dati della Commissione Europea non lasciano dubbi: l’Italia è la vittima principale di un modello economico europeo che ha fallito, ma la crisi riguarda l’intera Unione. Le fragilità sono diffuse e il rischio è quello di una stagnazione di lungo periodo, che alimenti disuguaglianze, disaffezione politica e tensioni sociali in tutta Europa.
È il momento di cambiare rotta. Serve un'Europa che rinunci all’austerità e ai vincoli di bilancio ciechi; che metta al centro il lavoro stabile e sicuro, il reddito, i servizi pubblici, la transizione ecologica, la redistribuzione della ricchezza. Un’Europa che non misuri il benessere col PIL, ma con l’uguaglianza, la salute, l’educazione e la giustizia sociale.
Pertanto, di fronte a questo scenario, non possiamo che rivendicare un’alternativa radicale e concreta:
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Investimenti pubblici per creare lavoro stabile e di qualità, a partire dalla scuola, dalla sanità, dall’edilizia pubblica e dalla riconversione ecologica.
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Un salario minimo legale, la cancellazione della precarietà e il rafforzamento dei contratti collettivi;
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Una riforma fiscale progressiva che colpisca rendite e grandi patrimoni, liberando risorse per la spesa sociale;
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Il superamento delle regole del Patto di Stabilità, per restituire agli Stati la possibilità di pianificare lo sviluppo secondo l’interesse collettivo;
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Una rottura democratica con il dogma della concorrenza e una ricostruzione dell’Unione Europea su basi solidali, ecologiche e popolari.
Questa trasformazione richiede coraggio politico e mobilitazione popolare: solo la pressione dal basso potrà rovesciare un ordine economico ingiusto, costruito per proteggere banche e grandi imprese, e aprire la strada a un’Unione realmente democratica, solidale e orientata al bene comune.
Se non si cambierà rotta, si continuare a scivolare verso una Europa sempre più diseguale, instabile e antidemocratica, dove a pagare la crisi saranno ancora una volta i ceti popolari.
Un’altra Europa è non solo possibile, ma necessaria!
*Segreteria nazionale Rifondazione Comunista
